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Il Naso, ovvero l’empatia.

Aggiornamento: 19 giu 2020

Massimiliano Carmello

Rianimatore, anestesita ASST Rhodense

Iscritto Verdi, Europa Verde Milano







La prima cosa che ti insegnano quando fai Medicina… Anzi, la prima cosa che non ti insegnano, ma che tutti i medici prima o poi devono imparare… Anzi, la prima cosa che tutti i medici dovrebbero imparare, ma che alla fine poi nemmeno tutti imparano, è l’empatia.

L’empatia salva la vita al paziente, che si sente almeno un po’ ascoltato e compreso, quando, riverso sulla barella di pronto soccorso, si vede avvicinare e trattare da operatori sanitari che ben poco hanno di umano e di tranquillizzante. L’empatia salva la vita al parente che, straziato dalla paura e dall’angoscia dell’incertezza, si consola all’idea che “… almeno mi sembrano brave persone!...”. Ma soprattutto l’empatia salva la vita a me, e mi da la forza di non crollare, perché spesso mi capita di credere che, da lì a poco, questo succederà.

Molte volte, parlando nella sala colloqui con i parenti dei nostri pazienti, mi sono ritrovato a pronunciare queste parole: “Quando siamo fuori da questo posto, noi siamo come voi!...”. Questo quasi a voler dividere la stessa sorte, a tentare di convincere queste persone che la condivisione della sofferenza, con chi evidentemente l’ha già vissuta direttamente o indirettamente, è l’arma vincente per superare il dolore e la paura del momento, ad esorcizzare il fantasma.

Mal comune mezzo gaudio? Ma è solo questo? O forse questo serve solo a me? Forse è soltanto un modo tutto mio di esorcizzare l’angoscia di dover comunicare che il povero paziente, nonostante tutti i nostri sforzi, non ce la farà, e tutto sarà vano? “Ma, se è tutto inutile, perché lo fate, allora?”. Ovvio, per questo: perché “Quando siamo fuori da questo posto, noi siamo come voi!...”. Insomma, tuo padre, tua madre, tuo marito è come se fossero parenti miei: farò tutto il possibile per salvarli, anche se fossi consapevole che questo non servisse a nulla, come del resto spesso è.

In una parola: empatia. Tutto questo, e anche molto di più, per me è l’empatia. Ed è veramente tanta roba. Anche perché mi ha sempre salvato la vita.

Ecco, e poi arriva il CoViD-19, e d’un tratto tutto questo non c’è più.

Il primo paziente con polmonite interstiziale da Nuovo Coronavirus che vidi era al letto 1 della nostra rianimazione. Per il motivo che fra un po’ capirai, non ne ricordo il nome. Era addormentato, intubato. Sembrava una persona normale, ma dentro di me sapevo che non era così. Era un profeta. Non stava nemmeno così male: aveva una buona ossigenazione, aveva una buona pressione, e dormiva beato grazie ai sedativi. Chissà poi come è andata per lui… Standogli vicino, sembrerò pazzo, ma avevo quasi paura a voltargli le spalle. Come se potesse, mentre non lo vedevo, alzarsi dal letto e farmi del male. Una paura ancestrale, infantile, quasi animale, che razionalmente dominavo, ma che dentro di me si faceva strada. Una minaccia invisibile ma tangibile: perché lui era di fatto pericoloso per me.

Quella notte, la mia prima notte dell’emergenza CoViD-19 nel mio ospedale, vidi lui, e poi vidi altri 3 o 4 pazienti in pronto soccorso. Pochissimi, rispetto a quelli che avrei visto dopo. Alcuni andavano bene, altri meno bene. In quel momento pensai che, per la prima volta, non ce l’avremmo fatta. Queste donne e questi uomini ci avrebbero sconfitto, battendoci in numero e in costanza, ci avrebbero presi per sfinimento, nella notte. Sarebbero continuati ad arrivare, senza mai fermarsi; avrebbero sacrificato le loro vite per dimostrare la nostra incapacità clinica e organizzativa. E mentre saturavamo tutti i letti del pronto soccorso e tutti i letti della rianimazione, la paura saliva, alimentata dal fatto che forse saremmo diventati anche noi come loro, perché di questo passo, ci saremmo di certo contagiati anche noi tutti. Erano un esercito zombi, erano l’invasione aliena. Questi pazienti, dentro di me, erano il nemico.

A casa, la mattina successiva, rientrato dopo la notte di turno, piansi. Poco ma piansi. Cercai di riposare un po’, ma non ci riuscii. Scrissi anche un lungo messaggio ai miei amici, raccomandando prudenza a loro e ai loro cari. Chissà se li avrei rivisti?...

Ma perché mi aveva preso così male? Non stavo forse esagerando? Perché questo senso di minaccia? Perché “il nemico”? Non erano tutte queste persone forse delle vittime?

È vero: vittime. Ma, non so se qualche collega è d’accordo con me, quello che ti manda fuori di testa dei pazienti CoViD-19 è questo, almeno quelli ricoverati in rianimazione: i pazienti sono tutti uguali; hanno tutti gli stessi sintomi, più o meno la stessa età e la stessa storia clinica. Sono tutti sedati e intubati, per cui non possono parlare. Alcuni sono anche curarizzati, o addirittura pronati, per cui non hanno nemmeno un volto. Inoltre i pazienti CoViD non hanno parenti, o meglio li hanno dall’altra parte del telefono, quindi privati di un’identità; hanno una voce sì, ma questa non è sufficiente a lasciarne trasparire le emozioni: non puoi vedere le mani che si torcono e le gambe senza riposo, non puoi percepirne la rabbia. Insomma il paziente CoViD della rianimazione indossa una divisa; è un soldato di un esercito silenzioso e mesto, e come lui ce ne sono a migliaia. È un kamikaze suo malgrado, un numero in una statistica. Ed è pericoloso, è pericolosissimo per noi, come lo è stato per la sua famiglia. Non lo puoi toccare, se non con doppi guanti, non lo puoi guardare se non attraverso occhiali protettivi o lo scudo facciale. E poi la mascherina: mi raccomando la mascherina!... Quando muore poi continua ad essere pericoloso, esattamente nello stesso modo, se non di più. Si impara a temerlo, ad averne paura. Ma tutto questo è sempre un male? Forse no.

Forse no perché, quando vivi in una situazione di emergenza pandemica, quello che ti salva è la diffidenza. Non serve solo rispettare le regole, non serve seguire un protocollo. Siamo in Italia, del resto, il paese dei furbetti! Per uno che “abbassa la guardia” ce n’è sempre un altro che dice “Beh, se lo fa lui lo faccio anche io!”. Ecco, la paura ti salva la vita. Ti salva la vita in ospedale, ma anche quando vai a fare la spesa, o te ne vai in giro (per quanto ci si possa muovere durante il lockdown). L’avere paura del tuo vicino, o del tuo collega, ti preserva. Sconfigge la catena del contagio. L’avere paura di usare il telefono cellulare, o di aprire la porta con la maniglia, diventano tutto d’un tratto dei superpoteri. E tutti i paranoici, i fanatici dell’igiene, i malati di Amuchina, diventano dei supereroi.

La paura. La paura ci salverà.

Ma, in tutto questo, l’empatia? Dov’è finita?

L’empatia non c’è più. Sparita. Non si riesce più a guardare un paziente nello stesso modo: in qualche maniera la percezione è che ci voglia fregare. Che, anche se entra per una frattura di femore o uno scompenso cardiaco, ci voglia prendere in giro; come se avesse un segreto inconfessabile che non vuole dirci, uno scheletro nell’armadio. Per questo io (in qualità di medico, ma anche di persona comune, identità alla quale ritorno una volta dismesso il camice, a fine turno) non riesco più a vivere le relazioni umane nello stesso modo di prima: tutti sono potenziali portatori asintomatici, tutti sono potenzialmente pericolosi. E questo succede in ospedale, ma anche a casa o al supermercato (e l’elenco è già finito qui, anche perché durante un lockdown non hai molti altri posti dove poter andare).

Solo questo? Finisce tutto in paranoia? Non c’è più null’altro da dire? La risposta è no. No, perché io non sono così, perché noi non siamo così.

Quello che successe, a questo punto, è sintetizzato in una sola parola: il naso.

Il naso, quando indossi i famigerati Dispositivi di Protezione Individuale, è la parte del corpo che più patisce. Ciò che ti massacra di più è la mascherina, FFP2 ma ancora peggio FFP3. Accessorio indispensabile ma fastidiosissimo, in un turno intero ti provoca dolori, arrossamenti, fastidi noiosissimi; alla peggio compaiono piaghe da decubito dolorosissime. Un calvario. Tutto qui? Macchè! Le mani, potenzialmente sporche di virus (vedi il paragrafo precedente: paranoia), non possono toccare la mascherina per sistemarla e per darci un po’ di sollievo, perché se no la sporcherebbero, aumentando in questo modo il rischio di contagio. Tutto ciò costituisce un mix potenzialmente esplosivo: immaginate quando qualcuno vi fa il solletico, o vi prude qualche parte del corpo, ma non potete grattarvela. Ecco: uguale, ma molto, molto peggio. Come si può pensare di concentrarsi con questi fastidi? Di essere lucidi, di affrontare decisioni? O ancora di più, di fermarsi oltre la fine del proprio turno, per dare consegne o per aiutare i colleghi del turno successivo?

Il naso. Pensate che il vostro naso sia messo male? Sì? Guardate allora quello dei vostri pazienti!

I pazienti CoViD, quelli col tubo, quelli in rianimazione, vengono da svariate ore, se non svariati giorni, con la mascherina della CPAP o della NIV. Una maschera che provoca sul naso lesioni da decubito, piaghe, ulcere, che il nostro naso a confronto se la passa benissimo. Un naso che fa pena, che fa tenerezza.

Ma, se è vero che l’empatia è la dote emotiva della condivisione del patimento, del “soffrire insieme”, il naso per me è stato la risposta che cercavo. Quante volte, per via del tormento che mi dava, ho desiderato che non ci fosse, che scappasse via, come quello di Gogol’? Quanti dei miei pazienti avranno pensato o sperato lo stesso, quando erano indecisi fra mantenere la maschera fra fastidi e incredibili patimenti, o toglierla, col rischio di soffocare, per avere sollievo da questi dolori lancinanti?

Eccola l’empatia, il sentimento che mi salva la vita. L’empatia CoViD si chiama naso.

Il naso mi ha salvato la vita.

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